I “letti” si trovano all’aperto, immersi nella quiete e nella frescura del giardino di San Servolo, a un passo dalle finestre che, attraverso il muro di cinta, guardano a distanza Venezia e la struggente bellezza di altri angoli della laguna, a sottolineare un concetto di libertà negata, una condizione innaturale, dolcezza e riposo che implicano però separazione e dolore. Ispirato a immagini d’archivio e a cimeli riguardanti la storia della follia, inclusi quelli conservati nel piccolo museo della follia dell’Isola di San Servolo, il letto/gabbia è qui visto anche come contenitore (di storie, memoria, perdita, dolore, oblio, follia... ): alcuni oggetti (bambola, foto, coperta, cuscino, bicchiere) sono custoditi all’interno di questi piccoli mondi, i letti appunto, che spesso, per reazione alla spersonalizzazione dei luoghi istituzionali, divengono per il loro inquilino una casa in miniatura che custodisce, sotto il cuscino, sotto il materasso o fra le pieghe delle lenzuola, i frammenti di quel mondo affettivo e personale da cui il malato/recluso/soldato è separato. Frasi ricamate, oppure ostinatamente graffite, alludono a un altro aspetto: il tempo sospeso, ozioso, della detenzione e della malattia. Altre tracce, discrete, come camicie che allacciano il corpo, evocano l’idea della contenzione, pur senza divenire didascaliche e museali attraverso una citazione troppo diretta. Con un apporto del tutto originale e personale, Cristina Treppo si aggiunge al numero delle artiste donne che stanno imprimendo nel nostro tempo una svolta al linguaggio della scultura, contaminandola con un’attenzione nuova ai valori emozionali e con materiali e prassi tipicamente femminili: per non citare che alcuni esempi, particolarmente vicini però al mondo di Cristina, ricordiamo Louise Bourgeois con le sue tragiche “bambole” di pezza, Kim Sooja con l’ago e il filo, Petah Coyne con i suoi agglomerati di materiali soffici in cui sono impigliati oggetti della memoria. I sette letti-gabbia presentati a San Servolo sono solo un parte di “Sleep Out”, opera in progress che prevede un numero molto più cospicuo di elementi e include nella sua forma completa una serie di fotografie scattate negli impressionanti interni in abbandono del Centro di Salute Mentale di Udine.
Testo a cura di Gloria Vallese