CREAM / Italia
Dania Zanotto
Per questo intervento a San Servolo, l’artista ha immaginato un gruppo di cinque tende, un intero piccolo villaggio collocato sotto gli alberi. Sono tende "sciamaniche", con riferimento al senso di un’intensa comunione con la natura, e anche a un "abitare fuori", abitare lontano, in una dimensione sospesa tra l’esilio e il viaggio.
Leggere, mosse dal vento, sono costruite con garza e materiali che suggeriscono oggetti naturali, come ghiaccio e corteccia. All’interno, ciotole, cuscini e tappeti sono posati su un fondo di sabbia antracite; fondo inizialmente circolare, ma che il vento rimuove con l’andare dei giorni, modificandone lentamente la forma. Appese agli alberi del "boschetto sciamanico" si trovano delle vesti, evocazione degli abiti consunti che i tungusi abbandonano appesi agli alberi della foresta, disertate dagli spiriti; evocazione di un’epoca, forse mitica, in cui l’uomo comprendeva il linguaggio degli uccelli e i segni della natura. Questo villaggio diafano di case senza radici, quieto e silenzioso, animato solo dal vento, evoca presenze umane al momento assenti e si pone idealmente in dialogo con gli antichi degenti dell’isola, gli "ospiti" folli relegati qui, lontano dalla comunità; ospiti la cui percezione era alterata, e perciò costretti all’ isolamento, come gli sciamani. Anche nell’antica tradizione europea, come in quelle del resto del mondo, i folli e i semplici erano considerati in qualche modo profeti, vivevano isolati, vagando senza meta quando non venivano invece costretti in un luogo. Una condizione per molti versi simile a quella degli sciamani che, al momento di annunciare la profezia o la formula di guarigione, si portano ad una crisi isterica seguita da allucinazioni, e sono temuti e tenuti lontano dalla comunità per comportamenti che nemmeno loro sono in grado di controllare. Un raffinato uso dei materiali (quelli che appaiono come ghiaccio e corteccia sono in realtà speciali resine, fissate a una base di garza che rende diafano e incorporeo questo villaggio fantasma, animato solo dal soffio dell’aria), insieme all’idea di una casa che non c’è, che non è che la materializzazione di un pensiero, possono suggerire un accostamento fra queste creazioni di Dania Zanotto e alcuni aspetti del lavoro dello scultore asiatico Do Ho Suh, che emigrato negli USA evocava fino ai più minuti dettagli della sua abitazione rimasta in Corea con esili strutture gonfiabili in plastica trasparente, appese al soffitto, fluttuanti e senza radici come lui stesso. In realtà, se l’idea finale può apparire accostabile, i punti di partenza sono assai diversi, perchè da tempo l’innesco per la riflessione di Dania Zanotto nell’ambito della scultura e dell’installazione è costituito da veste e tenda delle antiche civiltà nomadiche. Una veste, quella del nomade, ricoperta di simboli, che custodisce fra le sue pieghe ornamenti, amuleti, oggetti della vita quotidiana, che si dilata nel senso e nella funzione fino a divenire una sorta di abitazione viaggiante, i cui contorni coincidono coi confini del corpo. La sua tenda, al contrario, è abitazione provvisoria, ridotta al minimo, i cui arredi essenziali devono sopperire alle più diverse necessità del vivere.
Testo a cura di Gloria Vallese