Cuba
Julio Larraz
GIOCHI DI POTERE
Nell’universo pittorico di Julio Larraz, la raffigurazione del potere e dei suoi effetti polimorfi occupa una posizione saliente, pari all’importanza rivestita da un tema imperituro e sempre controverso. L’ironia dell’artista cubano bersaglia incessantemente i miti e le ossessioni connesse alla volontà di dominio, svelandone con le proprie immagini la violenza e l’irrazionalità, nonché la profonda inconsistenza. Con penetranti allegorie ci schiude una visione del potere inteso ora come sindrome ora come colpa: visione, comunque, essenzialmente poetica, frutto di una ricerca che, al di là degli spunti concettuali o ideologici, non travalica mai i limiti della pittura (o della scultura), che non elude in nessun caso e per nessuna ragione i presupposti della creazione artistica.
Pittore maturo e sapiente, Larraz affronta il tema universale del potere riducendolo a forma e colore, rivelandone le debolezze "di contenuto" e additandoci così l’unico modo per "giocarlo". Con le proprie nature morte, l’artista cubano crea metafore pittoriche e scultoriche sconcertanti che, pur gratificando gli occhi, stimolando l’immaginazione ed appagando il gusto, finiscono per scompigliare la mente: questo perché il sarcasmo che sempre le sottende — causticità da epigrammista non lontana dal proverbiale "spiritaccio" toscano — dà origine a significati ambigui e, dunque, a decifrazioni simultanee e diverse, spesso opposte. Questo vale anche per le sue figure umane — o meglio, i suoi "figuri" —, personaggi invariabilmente ed esemplarmente equivoci, affascinanti e repulsivi allo stesso tempo, emblemi di un’umanità pervertita (e deformata) dall’ansia di potere. Nel corso di trent’anni, Larraz ha costruito, oltre ad un vocabolario e ad una sintassi personali, un proprio sistema retorico. Le sue "invenzioni", infatti, consistono in trasposizioni, rimandi e insinuazioni che nell’insieme obbediscono a due modi di raffigurazione, il traslato e l’ironia. Nell’ambito della retorica tradizionale, il traslato appartiene alle "figure di contenuto", mentre l’ironia rientra in quelle "di pensiero". Larraz, tuttavia, riformula disinvoltamente l’uno e l’altra, applicandole in maniera eterodossa e sorprendente. Nelle sue opere, per esempio, il traslato agisce non meno sulle forme che sui contenuti, sfociando in immagini provocatoriamente naturalistiche. Invero, i suoi "bodegones" ricordano tanto Sanchez Cotán, maestro insuperato del naturalismo seicentesco spagnolo, quanto Arcimboldo, il grande "traslatore" di Rodolfo II. Come Arcimboldo, Larraz è un attento fisionomista ed un fine ritrattista. Ma le sue figure di pensiero, ben più veementi e disincantate, battono strade diverse. Da Sanchez Cotán, il pittore cubano ha ereditato (studiatamente) luci e ombre, immettendole, però, in contesti formali e concettuali vivi e mordaci… sotto mentite spoglie di nature morte. Questo peculiare trattamento del “bodegón” assume proporzioni monumentali in “Space Station” e in “Eclisse”, sculture entrambe che, al di là delle apparenze innocenti e perfino giocose, nascondono significati sferzanti. In “Tyrannosaurus rex”, teschio di un immane teropode (e per traslato “re dei re”) che pur da morto esige sacrifici, il significato si fa palese, o meglio, decifrabile: sebbene perenni, gli effetti di potere si attenuano sotto il peso dell’ironia. Potere ubiquo e polimorfo, ora rappresentato da una minacciosa pila di tazzine in risibile equilibrio, ora simboleggiato da un fenomeno astrofisico ove la sproporzione degli elementi in gioco riporta a temibili giochi umani. Il potere ha piedi di creta, suggerisce, il “Monarca”, bianco violoncello mummificato emettendo suoni d’oltretomba che, inudibili, non spaventano. Anche “Headless Horseman”, al di là dei riferimenti leggendari, rimette alla sopravvivenza dell’autoritarismo: quantunque acefalo il potere si riproduce e vaga qua e là, fantasma minaccioso fin dalla notte dei tempi. E che dire di quel mefistofelico personaggio assiso sulla portantina? Nulla, visto che già dice molto da sè. Larraz si è svezzato disegnando caricature. A questo tirocinio si deve gran parte della sua incisività di artista. Infatti, Larraz è insuperabile nel creare intere storie —di norma insidiosamente ambivalenti— a partire da un flash: un viso dietro il finestrino grondante e appannato di un’automobile (“Life, liberty and pursuit of happiness”), il dorso nudo di una giovane donna armata di Kalashnikov (“El vado”) o l’inquietante apparizione raffigurata in “Encuentro en Sertao de Antunes”. Sintesi narrative a sfondo allegorico o analogico, ottenute per mezzo di traslati rivisti e aggiornati ideologicamente, ottenute, soprattutto, a partire dall’esperienza del caricaturista. Caricatura vuol dire sempre deformazione, non importa se a sfondo comico o drammatico. Il pittore cubano l’ha imparato negli anni Settanta, disegnando per il New York Times e il Washington Post. In seguito ha appreso che la verosimiglianza di un ritratto dipende anch’essa, sempre, da un qualche grado di deformazione introdotto dal ritrattista. La verità non deve essere strappata al modello — ha capito Larraz — bensì aggiunta, sovrapposta ad esso con l’aiuto di segni di estraniamento, poiché il vero, nell’arte, nasce dall’infedeltà nei confronti del reale, ossia da una finzione espressa in termini di verità. Gli enormi busti che con le loro ombre altrettanto smisurate colmano il settore centrale della navata di Sant’Agostino esemplificano alla perfezione questo paradosso: essi sono verosimili non perché rassomiglino ai senatori a suo tempo scolpiti da anonimi artisti della Roma Imperiale, ma perchè se ne discostano, convogliando significati diversi da quelli originali. Essi danno luogo ad un rito, un’immobile liturgia cadenzata —pur nella sua fissità — da una musica ossessiva. Dall’ascesa di Giulio Cesare sono trascorsi più di duemila anni, qualcuno di meno dalla sua uccisione, ma le cerimonie del potere si perpetuano ancor oggi, sempre uguali a se stesse. La Gallia è scomparsa ma come una fenice riappare ad ogni pie’ sospinto, preferibilmente fra Nubia e Mesopotamia.
Testo a cura di Giorgio Antei