Italia
Barbara Taboni

Nel lavoro di Barbara Taboni, vari sono gli elementi che si riferiscono al corpo umano. Ci sono i calchi in gesso di parti del corpo, simboli di unicità individuale: per esempio, calchi di piedi, tutti diversi fra loro e unici come lo è ciascun individuo, fedeli fino all’applicazione di veri peli prelevati dal soggetto (Standing feet, 2005, dimensioni variabili). C’è poi il manichino, quello delle vetrine di moda, che esattamente all’opposto del calco si riferisce a un corpo umano artificiale, seriale e disgregato, tipica espressione, secondo l’artista, dell’epoca che stiamo vivendo. Il linguaggio visuale di Barbara Taboni include poi sagome soffici, dai tratti umani appena accennati, simili a bambole di stoffa cominciate e non finite, che nella loro indeterminatezza alludono all’immaturità, all’incompletezza larvale: pupe, le chiama l’artista, e spiega: “pupa è la farfalla quando non si è ancora dischiusa, simbolo dell'anima che è psiche... pupa evoca la pupilla nella quale si specchia il nostro contorno, il contorno che dà il nome alla bambola, in francese poupée”. Nelle opere recenti, questi simboli s’intrecciano fra loro: come nell’inquietante semiumanità che emana dalla foto digitale di due manichini visti in una vetrina a luce notturna, illusione mimetica di realtà causata dal fatto che i corpi veri sono di fatto sempre più finti, levigati dal trucco, dal bisturi, dal ritocco digitale (Pupe, 2007); mentre altrove (Psiche, 2007), il manichino in gesso mutilato e incompleto, allungato da una forte stilizzazione a proporzioni irreali, lascia riaffiorare le valenze assunte al tempo di De Chirico e della Metafisica. E una melanconia metafisica pervade Psiche 07, l’opera realizzata per la decima edizione di OPEN, in cui busti in gesso ricavati in serie da una bambola-manichino da vetrina si presentano mutilati e divisi a metà, lungo un asse che attraversa la testa e le spalle. Alcuni tratti, fra cui il bianco della superficie e l'armonia formale, evocano la statuaria e l'arte classica. Dalla disposizione regolare e simmetrica di una serie di queste figure monche e tutte uguali sul Lungomare del Lido, emana un senso sottilmente cimiteriale di perdita d’identità, di abbandono, ma nello stesso tempo anche di luogo di pausa, di riflessione; rafforzato dall’offerta da parte dell’artista di matite, ancorate ad ogni busto, con le quali chi vuole può scrivere sulla figura prescelta ciò che più aggrada, lasciando un segno del proprio passaggio... Scrivere sopra le statue è un bisogno di esserci, un ritorno imprevedibile, a volte felice, più spesso brutale e inadeguato, di ciascun soggetto ad affermare la propria individualità contro l’umanità spersonalizzata ed estranea del monumento.

 

Curatore Gloria Vallese